I viceré NomeDelloStudente CognomeDelloStudente Università degli Studi di Bergamo Sommario Esercizio III Il Blasco Da quel giorno, don Blasco non ebbe più pace. A lui come a lui, che l'eredità andasse spartita in un modo piuttosto che in un altro, importava meno d'un fico secco; ma fin da quando egli era entrato al convento, non avendo più affari propri, la sua costante preoccupazione era stata di ficcare il naso in quelli degli altri. Ragazzo, egli aveva visto i bei tempi di casa Uzeda, quando suo padre, il principe Giacomo XIII, spendeva e spandeva regalmente, con venti cavalli in istalla, uno sciame di servitori e un'intera corte di lavapiatti che prendevano posto alla tavola imbandita giorno e notte. Il futuro Cassinese Allora, il futuro Cassinese non aveva udito altri discorsi fuorché quelli delle straordinarie ricchezze di suo padre, dei grandi feudi che possedeva, delle rendite che riscoteva da mezza Sicilia; e glien'era naturalmente venuta una smania di godimenti, un'ingordigia di piaceri che ancora non sapeva precisare egli stesso; quando un bel giorno fu messo al noviziato di San Nicola e poi costretto a pronunziare i voti. Tutte quelle ricchezze erano del fratello primogenito: a lui non toccava altro che la dotazione di trentasei onze l'anno indispensabile per entrare nella ricca e nobile badìa!... Si scialava, veramente, a San Nicola, forse meglio che in casa Francalanza. Il convento, immenso, sontuoso, era agguagliato ai palazzi reali, a segno che c'eran le catene distese dinanzi al portone; e le rendite di cui godeva, circa settantamila onze l'anno, bastavano appena ad una cinquantina tra monaci, fratelli e novizi. Gaspare duca d'Oragua Ma il lauto trattamento e l'allegra vita e la quasi assoluta libertà di fare quel che gli piaceva, non dissiparono dal cuore del monaco il cruccio per la violenza patita; tanto più che gli altri fratelli cadetti, il secondogenito Gaspare duca d'Oragua e lo stesso Eugenio, restavano al secolo, con pochi quattrini, in verità, ma con la possibilità di procacciarsene; liberi del tutto, a ogni modo, e padroni di vestirsi secondo la moda, non costretti a portar la tonaca che pesava a don Blasco più che a un servo la livrea. L'acrimonia del Benedettino, il suo dolore per le perdute ricchezze, la sua invidia contro i fratelli, il suo rancore contro il padre, si sfogarono quindi con l'esercizio quotidiano d'una censura acerba e inesorabile su tutta la parentela. Egli ebbe tanto più campo di sfogarsi quanto che, venuti i nodi al pettine, distrutta in poco tempo la fortuna del padre, il principino Consalvo VII fu ammogliato a quella Teresa Risà che entrò a far da padrona in casa Uzeda. Secondo le tradizioni di famiglia, premendo d'assicurare la continuazione del ramo primogenito e più, in quelle speciali circostanze, di ristorare le sconquassate finanze con una grossa dote, Consalvo fu accasato a diciannove anni, quando don Blasco non aveva ancora pronunziato i voti; ma fin da quel momento il novizio concepì contro la cognata una particolare avversione che cominciò a manifestarsi più tardi, ad ogni momento, per tutto ciò che ella fece e che non fece. Il barone di Risà di Niscemi, padre della sposa, era venuto a Catania dall'interno dell'isola per dar marito alle due uniche sue figliuole, alle quali, da principio, voleva spartire egualmente le sue grandi ricchezze. Ma quando la maggiore, Teresa, fu proposta al principe di Mirabella, futuro principe di Francalanza, gli Uzeda gli fecero intendere che, quantunque falliti, essi non avrebbero dato Consalvo VII alla figlia d'un semplice barone contadino, se costei non avesse colmato coi quattrini la distanza che la separava da un discendente dei Viceré.