Victor HUGO, I MISERABILI Sommario PARTE PRIMA- FANTINE Fino a quando esisterà, per causa delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale, che crea artificialmente, in piena civiltà, degli inferni e che complica con una fatalità umana il destino, che è divino; fino a quando i tre problemi del secolo, l'abbrutimento dell'uomo per colpa dell'indigenza, l'avvilimento della donna per colpa della fame e l'atrofia del fanciullo per colpa delle tenebre, non saranno risolti; fino a quando, in certe regioni, sarà possibile l'asfissia sociale; in altre parole, e, sotto un punto di vita ancor più esteso, fino a quando si avranno sulla terra, ignoranza e miseria, i libri del genere di questo potranno non essere inutili. Hauteville House, I gennaio l862 LIBRO PRIMO - UN GIUSTO V - IN CUI SI VEDE COME MONSIGNOR MYRIEL FACESSE DURARE TROPPO A LUNGO LE SUE TONACHE La vita intima di monsignor Myriel era piena degli stessi pensieri della sua vita pubblica. Per chi avesse potuto vederla da vicino, la volontaria povertà in cui viveva il vescovo di Digne avrebbe costituito uno spettacolo grave ed attraente. Al pari di tutti i vecchi e della maggior parte dei pensatori, egli dormiva poco; ma quel breve sonno era profondo. Al mattino si raccoglieva per un'oretta, poi diceva la messa, o nella cattedrale, o nel suo oratorio. Dopo la messa, faceva colazione con un pane di segala inzuppato nel latte delle sue vacche; poi lavorava. Un vescovo è un uomo occupatissimo; deve ricevere ogni giorno il segretario del vescovado, di solito un canonico, e, quasi ogni giorno, i suoi grandi vicari; deve controllare congregazioni, dare privilegi, esaminare un'intera libreria ecclesiastica, libri da messa, catechismi diocesani, breviari, eccetera; deve scrivere pastorali, autorizzare prediche, mettere d'accordo curati e sindaci e sbrigare una corrispondenza religiosa ed una corrispondenza amministrativa. Da una parte lo stato, dall'altra la santa sede; mille faccende, insomma. Il tempo lasciatogli da quelle mille faccende, dagli uffici e dal breviario lo dedicava, prima di tutto, ai bisognosi, ai malati ed agli afflitti, poi, il tempo che gli afflitti, i malati, i bisognosi gli lasciavano, dedicava al lavoro. Ora zappava la terra in giardino, ora leggeva e scriveva, ed aveva una sola frase per entrambe le specie di lavoro: chiamava ciò occuparsi di giardinaggio. "La mente è un giardino," diceva. A mezzogiorno desinava; e il desinare somigliava alla prima colazione. Verso le due, quand'era bel tempo, usciva a passeggio a piedi in campagna od in città, entrando spesso nelle stamberghe. Lo si vedeva camminare solo, appoggiato al lungo bastone, vestito della sopravveste violacea, ovattata e ben calda, colle calze viola sotto le grosse scarpe e con in testa il cappello piatto, che lasciava uscire dai tre corni tre fiocchi d'oro a granellini. Dovunque compariva, era una festa. Si sarebbe detto che il suo passaggio avesse qualche cosa che riscaldava ed illuminava; i fanciulli e i vecchi venivan sulla soglia delle porte per il vescovo, come per il sole. Egli benediceva e veniva benedetto, e la gente indicava la sua casa a chiunque aveva bisogno di qualcosa. Qua e là si fermava, parlava ai ragazzi ed alle bambine e sorrideva alle madri. Finché aveva denari, visitava i poveri; quando non ne aveva più visitava i ricchi. Siccome faceva durare le tonache molto a lungo non voleva che se ne accorgessero, non usciva mai in città, se non colla sopravveste violacea; il che l'infastidiva un poco, d'estate. La sera, alle otto e mezzo, cenava colla sorella, mentre la signora Magloire, in piedi dietro di essi, li serviva a tavola. Nulla di più frugale di quei pasti; pure, se il vescovo aveva a cena un suo curato, la signora Magloire ne approfittava per servire a monsignore qualche eccellente pesce di lago e qualche selvaggina ricercata della montagna. Ogni curato era un pretesto ad un buon pranzo, ed il vescovo lasciava fare; all'infuori di questo, la sua solita tavola si componeva solo di legumi cotti nell'acqua e di minestra coll'olio. Perciò si diceva in città: "Quando il vescovo non si tratta da curato, si tratta da trappista." Dopo cena, chiacchierava per circa mezz'ora colla signorina Baptistine e colla signora Magloire; poi si ritirava nella sua stanza e tornava a scrivere ora su fogli volanti, ora sui margini di qualche in-folio, perché era letterato e alquanto dotto. [...] VI - DA CHI FACEVA CUSTODIRE LA SUA CASA La sua dimora si componeva, come abbiam detto, d'un pianterreno e di un solo piano; tre stanze al pianterreno, tre camere al primo piano e, sopra ancora, un solaio; dietro alla casa, il giardino di circa venti pertiche. Le due donne occupavano il primo piano, mentre il vescovo abitava dabbasso. La prima stanza, che dava sulla via, gli serviva da sala da pranzo, la seconda da camera da letto e la terza da oratorio; non si poteva uscire dall'oratorio senza passare dalla camera da letto, né uscire dalla camera da letto senza passare dalla sala da pranzo. Nell'oratorio, in fondo, v'era un'alcova chiusa, con un letto, in caso d'ospitalità: monsignor vescovo offriva quel letto ai curati di campagna che gli affari o i bisogni della loro parrocchia conducevano a Digne. La farmacia dell'ospedale, piccola costruzione aggiunta alla casa, a spese del giardino, era stata trasformata in cucina e dispensa. Inoltre, v'era nel giardino una stalla, ch'era stata la vecchia cucina dell'ospedale, ed in cui il vescovo teneva due vacche; qualunque fosse la quantità di latte ch'esse gli davano, ne mandava invariabilmente ogni mattina la metà ai malati dell'ospedale. "Pago la mia decima," diceva. questo testo è distribuito con la licenza specificata all'indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/; è tratto da "I Miserabili", di Victor Hugo, edizione Garzanti 1981, su licenza Mursia e pubblicato da Liber Liber per concessione della Ugo Mursia Editore S.p.A.