Victor HUGO, I MISERABILI Sommario PARTE PRIMA- FANTINE Fino a quando esisterà, per causa delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale, che crea artificialmente, in piena civiltà, degli inferni e che complica con una fatalità umana il destino, che è divino; fino a quando i tre problemi del secolo, l'abbrutimento dell'uomo per colpa dell'indigenza, l'avvilimento della donna per colpa della fame e l'atrofia del fanciullo per colpa delle tenebre, non saranno risolti; fino a quando, in certe regioni, sarà possibile l'asfissia sociale; in altre parole, e, sotto un punto di vita ancor più esteso, fino a quando si avranno sulla terra, ignoranza e miseria, i libri del genere di questo potranno non essere inutili. Hauteville House, I gennaio l862 LIBRO PRIMO - UN GIUSTO VII - CRAVATTE Qui trova il suo posto naturale un fatto che non possiamo omettere, poiché è di quelli che meglio lasciano vedere che uomo fosse monsignor vescovo di Digne. Dopo la distruzione della banda di Gaspare Bès, che aveva infestato le gole dell'Ollioules, un suo luogotenente, Cravatte, si rifugiò sulla montagna. Per qualche tempo si nascose co' suoi banditi, avanzo della banda di Gaspare Bès, nella contea di Nizza, poi passò in Piemonte, per riapparire all'improvviso in Francia, dalle parti di Barcellonette; fu visto prima a Jauziers e poi alle Tuiles; e si nascose nelle caverne di Joug-de-l'Aigle, dalle quali scendeva verso le capanne ed i villaggi dai precipizi dell'Ubaye e dell'Ubayette. Osò perfino spingersi ad Embrun, penetrò di nottetempo nella cattedrale e svaligiò la sagrestia. Le sue rapine desolavano la regione. Gli fu messa alle calcagna la gendarmeria, ma invano; egli sfuggiva sempre e talvolta resisteva con la forza, poiché era un miserabile coraggioso. In mezzo a tutto quel terrore, giunse il vescovo in visita pastorale; a Chastelar, il sindaco venne a visitarlo e lo consigliò di tornare sui suoi passi. Cravatte batteva la montagna fino all'Arche e v'era pericolo, anche con una scorta; sarebbe stato un esporre inutilmente tre o quattro malcapitati gendarmi. "E perciò," disse il vescovo "conto d'andare senza scorta." "Non pensateci neppure, monsignor!" esclamò il sindaco. "Ci penso tanto, che rifiuto assolutamente i gendarmi e partirò fra un'ora." "Partirete?" "Partirò." "Solo?" "Solo." "Lassù, nella montagna," ribatté il vescovo, "c'è un povero comunello grande così, che non ho visto da tre anni. Sono pastori affabili, onesti, e miei buoni amici; posseggono una pecora su trenta che ne custodiscono, fanno graziosissimi cordoni di lana di colori diversi e suonano arie montanine con piccoli flauti a sei buchi. Hanno bisogno che di tanto in tanto si parli loro di Dio. Che cosa direbbero d'un vescovo che ha paura? Che cosa direbbero se non v'andassi?" [...] VIII - FILOSOFIA DEL DOPO CENA Il senatore di cui abbiamo parlato prima era un uomo accorto, che s'era fatto strada con una rettitudine disattenta a tutti quegli incontri che formano ostacolo e si chiamano coscienza, fede giurata, giustizia e dovere. Aveva camminato diritto allo scopo, senza vacillare una sola volta sulla linea del suo vantaggio e del suo interesse. Era un antico procuratore, commosso dal successo e non malvagio, che faceva tutti i vantaggi possibili ai figli, ai generi, ai genitori e perfino agli amici, un uomo che aveva saviamente preso la vita dal suo lato buono, al pari delle buone occasioni e della buona fortuna. Il resto gli sembrava piuttosto sciocco; era intellettuale e abbastanza letterato, per l'appunto, per credersi un discepolo d'Epicuro, mentre forse era solo un prodotto di Pigault-Lebrun. Rideva volentieri e piacevolmente delle cose infinite ed eterne, come delle "corbellerie di quel buon uomo di vescovo", e ne rideva talvolta, con amabile autorità, davanti allo stesso monsignor Myriel, che lo ascoltava. Durante una certa cerimonia semiufficiale, il conte *** (quel senatore) e monsignor Myriel dovettero pranzare in casa del prefetto. Dopo la frutta, il degno senatore, un po' allegro, sebbene sempre dignitoso, esclamò: "Perbacco! Discorriamo, signor vescovo. Un senatore e un vescovo difficilmente si guardano senza strizzar l'occhio, noi siamo due àuguri. Vi faccio una confessione: che, cioè, ho la mia filosofia anch'io." "Ed avete ragione," rispose il vescovo. "Ci si corica a seconda del modo in cui è fatta la propria filosofia: e voi siete su un letto di porpora, signor senatore." Il senatore, incoraggiato, replicò: "Cerchiamo d'essere buoni ragazzi." "Magari buoni diavoli," disse il vescovo. "Vi dichiaro," riprese il senatore "che il marchese d'Argens, Pirrone, Hobbes e il signor Naigeon non sono cialtroni; nella mia biblioteca ho tutti questi filosofi, con dorature sulle costole." "Proprio come voi, signor conte," interruppe il vescovo. Il senatore proseguì: "Odio Diderot: è un ideologo, un declamatore e un rivoluzionario, in fondo in fondo credente in Dio e più bigotto di Voltaire. Voltaire s'è fatto beffe di Needham ed ha avuto torto, perché le anguille di Needham dimostrano che Dio è inutile; una goccia d'aceto in un cucchiaio di pasta di farina tien luogo del fiat lux. Supponete che la goccia sia più grossa e il cucchiaio più ampio ed avrete il mondo: l'uomo è l'anguilla. A che serve, allora, il Padre Eterno? Signor vescovo, l'ipotesi Jehovah mi stanca; è buona soltanto a produrre persone magre, dai pensieri profondi. Abbasso il gran Tutto che m'infastidisce! Viva lo Zero che mi lascia tranquillo! questo testo è distribuito con la licenza specificata all'indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/; è tratto da "I Miserabili", di Victor Hugo, edizione Garzanti 1981, su licenza Mursia e pubblicato da Liber Liber per concessione della Ugo Mursia Editore S.p.A.