Victor HUGO, I MISERABILI Sommario PARTE PRIMA- FANTINE Fino a quando esisterà, per causa delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale, che crea artificialmente, in piena civiltà, degli inferni e che complica con una fatalità umana il destino, che è divino; fino a quando i tre problemi del secolo, l'abbrutimento dell'uomo per colpa dell'indigenza, l'avvilimento della donna per colpa della fame e l'atrofia del fanciullo per colpa delle tenebre, non saranno risolti; fino a quando, in certe regioni, sarà possibile l'asfissia sociale; in altre parole, e, sotto un punto di vita ancor più esteso, fino a quando si avranno sulla terra, ignoranza e miseria, i libri del genere di questo potranno non essere inutili. Hauteville House, I gennaio l862 LIBRO SECONDO - LA CADUTA VII - UNA PROFONDA DISPERAZIONE Cerchiamo di dirlo. Bisogna bene che la società tenga conto di queste cose, dal momento che essa le produce. Era un ignorante, abbiam detto; ma non uno stupido e la luce naturale splendeva in lui. La disgrazia, che ha anch'essa la sua luminosità, aumentò a poco a poco quella poca luce che v'era nel suo spirito; sotto il bastone, sotto la catena, nella cella, alla fatica, sotto l'ardente sole del carcere, sul letto di tavole del forzato egli si ripiegò nella sua coscienza e rifletté. Si costituì tribunale e incominciò col giudicare se stesso. Riconobbe di non essere un innocente ingiustamente punito e confessò a se stesso d'aver commesso un atto eccessivo e biasimevole; si disse che forse, quel pane non gli sarebbe stato negato se l'avesse chiesto e che in ogni caso sarebbe stato meglio aspettarlo o dalla compassione o dal lavoro, che non è per nulla una ragione a cui non si possa replicare il dire: Si può aspettare, quando si ha fame? e che del resto è rarissimo che si muoia letteralmente di fame e che l'uomo, poi, disgraziatamente o fortunatamente, è fatto in guisa, che può soffrire a lungo e molto, tanto dal lato morale che fisico, senza morire; che ci voleva pazienza, dunque, perché così sarebbe anche stato meglio per quei poveri piccini; che era un gesto di pazzia, per lui, povero meschinello, prendere violentemente pel collo la società intera e immaginarsi di uscire dalla miseria attraverso il furto; che, in ogni caso, era una brutta porta, per uscir dalla miseria, quella per cui si entra nell'infamia; e concluse, finalmente, che aveva torto. Ma poi si chiese: Era il solo che avesse avuto torto nella sua fatale storia? E, prima di tutto, non era cosa grave che a lui, lavoratore, fosse mancato il lavoro e che a lui, laborioso, fosse mancato il pane? Eppoi, una volta commesso e confessato il fatto, il castigo non era forse stato feroce ed eccessivo? Egli si chiese ancora se non v'era stato maggior abuso da parte della legge nella pena, di quanto non ci fosse stato abuso da parte del colpevole nella colpa; se non v'era eccesso di peso in uno dei piatti della bilancia, in quello dell'espiazione: se il sovrappiù della pena non finiva per cancellare il delitto e portare al solo risultato di capovolgere la situazione, di sostituire alla colpa del delinquente quella della repressione, di fare del colpevole la vittima, del debitore il creditore e di mettere in definitiva il diritto dalla parte di quello stesso che l'aveva violato. Si rivolse la domanda se codesta pena complicata dai successivi inasprimenti per i tentativi d'evasione, non finisse per essere una specie di sopruso del più forte sul più debole, un reato della società sull'individuo, un delitto che si rinnova quotidianamente, una colpa che durava da diciannove anni. E si chiese inoltre se la società umana potesse avere il diritto di far ugualmente subire ai suoi membri, nell'un caso la sua irragionevole imprevidenza, nell'altro la sua previdenza spietata, e di ghermire per sempre un poveretto, fra una deficienza e un eccesso; deficienza di lavoro, eccesso di castigo. [...] VIII - L'ONDA Un uomo in mare! Che importa? La nave non si ferma. Il vento spira e quella nave maledetta è costretta a continuare la sua rotta; prosegue. L'uomo scompare e ricompare, s'immerge e risale alla superficie, chiama e tende le braccia; ma nessuno lo sente. La nave, percossa dall'uragano, bada solo alla manovra; i passeggeri e i marinai non vedono neppur più l'uomo sommerso, e la sua povera testa non è che un punto nella immensità delle onde. Egli getta in quella profondità grida disperate. Oh, quale spettro, quella vela che se ne va! Egli la guarda, la guarda freneticamente; essa s'allontana, scolora, impicciolisce... E dire che poc'anzi era là egli pure, faceva parte dell'equipaggio, andava e veniva sul ponte, cogli altri, aveva la sua parte di respiro e di sole, era vivo, insomma! Che è successo, dunque? È scivolato, è caduto ed è perduto. È nell'acqua mostruosa, ha sotto i piedi solo fuga e ruina; le onde, stracciate, sbriciolate dal vento, lo circondano orrendamente e il dondolìo dell'abisso lo porta via. Tutti i flutti s'agitano intorno al suo capo, una folla d'onde gli sputa addosso, confuse aperture lo inghiottono; ogni qual volta s'inabissa, intravede precipizî pieni di tenebre, e spaventose vegetazioni sconosciute l'afferrano, gli legano i piedi e l'attirano a sè. Egli sente che diventa abisso, che fa parte della schiuma e che le onde se lo buttano dall'una all'altra; beve l'amarezza, mentre il vile oceano s'accanisce nell'annegarla e l'immensità giuoca colla sua agonia. Sembra che tutta quell'acqua si sia fatta odio. Pure egli lotta e tenta di difendersi, di sostenersi; fa uno sforzo e nuota. Egli, povera forza subito stanca, combatte l'instancabile. Dov'è dunque la nave? Laggiù, appena visibile nelle pallide tenebre dell'orizzonte. Fischiano le raffiche e tutte le schiume l'opprimono; alza gli occhi e scorge il lividore delle nubi. Assiste, agonizzante, all'immensa follìa del mare, che lo sta suppliziando; ed avverte rumori sconosciuti all'uomo, che gli sembrano provenire da oltre la terra, da non so quale mondo. Ci sono uccelli nelle nubi, come angeli sopra le sciagure umane; ma che posson fare per lui? Volano, cantano e guizzan via, mentr'egli rantola.