Esercizio semplice - Università degli Studi di Bergamo - Facoltà di Lettere e Filosofia SOMMARIO CAPITOLO I Limonta è una terricciuola presso che ascosa fra i castagni al guardo di chi, spiccatosi dalla punta di Bellagio, per navigar verso Lecco, la cerca a mezza costa, in faccia a Lierna. Cominciando dall'ottavo secolo, fino agli ultimi tempi che fur tolti i feudi in Lombardia, essa fu sempre soggetta al monastero di S. Ambrogio di Milano; e l'Abate fra gli altri titoli avea quello di conte di Limonta. Sul confine tra il dominio dei monaci e il territorio di Bellagio, segnato ancora al dì d'oggi con una pietra, sorgeva nel 1329 un vecchio castello che fu poi rovinato verso il terminar di quel secolo, e del quale non si conserva più nessun avanzo. Questo castello, al tempo da noi indicato, era posseduto da un conte Oldrado del Balzo, i cui antenati doveano, a quel che pare, essere stati anticamente signori di Bellagio che allora si reggeva a comune. Il conte Oldrado, quantunque avesse molti possedimenti in varie parti di Lombardia, passava ivi la maggior parte dell'anno in compagnia della moglie e di una sola figlia, innamorate entrambe, al par di lui, di quel bel cielo, di quel bel lago, di quel clima molle, lieto e delizioso. Ricca, illustre, potente Ricca, illustre, potente di parentadi e di attenenze, la famiglia del Balzo era sempre stata la protettrice naturale degli abitanti dei paesi vicini alla sua dimora; e tutti per una lunga tradizione di padre in figlio avevano imparato a riverirne e ad amarne il nome. Successore di un sì bel retaggio, il conte Oldrado non avea però saputo mantenerselo, ed era scaduto assai nel concetto degli antichi clienti della sua casa: non ch'egli fosse cattivo; era una bella e buona pasta d'uomo; ma essendogli capitato di vivere in tempi difficili, in circostanze forti e malagevoli, non trovava nella sua natura floscia, timida, e non altro che vanitosa, il vigore necessario per far il bene che avrebbe pur voluto. Intorno a quel tempo era calato in Italia Lodovico detto il Bavaro, e, deposto di proprio capo, il sovrano pontefice Giovanni XXII residente ad Avignone, dal quale era stato scomunicato, erasi arrogato di far crear papa in sua vece in Roma un Pietro da Corvara dell'ordine dei Minori, che prese il nome di Niccolò V, empiendo per tal modo tutta cristianità di scandalo e di scisma. Milano, che gemeva Milano, che gemeva già da molti anni sotto l'interdetto stato fulminato per odio dei Visconti, potenti ed accaniti favoreggiatori di parte ghibellina, si dichiarò tosto per l'antipapa; ed avendo questi ribenedetto lo Stato, la città capitale, le altre città minori e i borghi più considerabili riapersero le chiese, e il poco clero rimasto fra noi, riprese le funzioni ecclesiastiche e l'amministrazione dei sacramenti, come a tempi ordinari. Ma nelle campagne, sul lago di Como principalmente, il popolo, meno infuriato negli odi di parte, si mantenne fedele al vero pontefice, e rifiutando di aprir le chiese, considerava come scismatici e scomunicati i sacerdoti che vi venivano spediti dalla capitale. V'eran poi, come è facile a supporsi, nelle città e nei borghi di quelli che la pensavano come i contadini, e v'erano degli abitanti di piccole terre che partecipavano alle opinioni di quelli delle grosse borgate, il che potete pensare quanto dovesse render dolce e riposato il viver civile in quei poveri tempi. Dappertutto profanazioni, violenze, risse e sangue. Frate Aicardo, arcivescovo di Milano, l'abate di Sant'Ambrogio, la maggior parte degli abati dei più ricchi ed insigni monasteri, fuggiti già da un pezzo; la più eletta porzione del clero sì regolare, che secolare, errante, mendica per le terre d'Italia e di Francia; la mensa arcivescovile, le abbazie, i benefici ecclesiastici di minor conto, occupati e tenuti violentemente da' signori laici, o da sacerdoti scismatici amici dell'imperatore. In tanta perturbazione, in tanto viluppo di cose, Giovanni Visconte, parente dei principi, che era stato nominato abate di S. Ambrogio, in luogo del vero abate Astolfo da Lampugnano, avea mandato a Limonta procuratore del monastero un furfante, mettitor di dadi malvagi, stato già condannato in Milano come falsario, il quale per vendetta della fedeltà che quei poveri montanari serbavano al loro legittimo signore, li veniva succiando, pelando, scorticando senza pietà, faceva loro mille angherie, mille soprusi, li trattava come roba di rubello. I Limontini si rivolgevano al conte Oldrado perchè s'adoperasse presso l'abate, intercedesse dai signori, facesse valer le loro ragioni; ma gli era come a pestar l'acqua nel mortaio; il conte avea tanti rispetti, tante paure, non voleva commettersi con alcuno, non voleva arrischiare di andar in disgrazia dei Visconti, e compiangendo in cuor suo quei miseri malmenati, gli avrebbe lasciati sparare prima di risolversi a levare un dito per aiutarli.